Bruno G. Bara – La conoscenza viscerale ed emotiva di sé ottenuta grazie alla terapia personale è fondamentale per il terapeuta?
La serena e ossessiva insistenza con cui promuovo la terapia personale nelle scuole da me dirette si basa principalmente su due serie di considerazioni. La prima è che l’importanza della terapia personale è maggiore in un approccio costruttivista e basato sulla relazione rispetto all’approccio cognitivo standard, più basato sui protocolli terapeutici.
La seconda è che la conoscenza cui si mira è di tipo viscerale (alla Damasio) ed emotiva, non esclusivamente cognitiva. La strada per acquisirla non può quindi essere unicamente intellettuale, ma deve procedere per via esperienziale. Non è detto che la terapia personale sia l’unico modo per acquisirla: un’approfondita qualità introspettiva o meditativa potrebbe forse portare a risultati equivalenti, ma sembra una strada asperrima, riservata a pochissimi. Le altre modalità, come il lavoro di gruppo, sono utilissime, ma non permettono il gioco della psicoterapia nei due ruoli complementari di terapeuta e paziente.
Rischi e costi non banali ovviamente ne esistono, anche se non sono quelli devastanti esperiti dalla psicoanalisi (vedi Gabbard & Lester, 2003). L’obbligatorietà iniziale va considerata come una fase superata: noi la consigliamo caldamente, sostituendo il vecchio slogan: “Nel caso tu stia male fai una terapia personale” con il più adeguato: “Se non fai una terapia personale probabilmente stai abbastanza male”.
 
Bruno G. Bara & Dream Team (Romina Castaldo, Rossella Costantino, Tiziana Isaia, Erika Bonetto, Nicoletta Causi) – La quasi comunicazione di emozioni nei sogni
L’assunto fondamentale del metodo d’interpretazione qui proposto è che il sogno sia primariamente determinato dalle emozioni attive nel sognatore, e che possa essere usato come strumento per conoscerle in un modo più immediato che nello stato di veglia. Tratteremo il sogno come una comunicazione non intenzionale, cui manca una parte fondamentale: l’effettivo desiderio di comunicare qualcosa, ricostruendo a posteriori l’intenzionalità comunicativa del sognatore.
Il nostro metodo considera il sogno come se fosse una doppia comunicazione, dall’inconscio al conscio del sognatore, e dal sognatore all’interprete. Non stiamo sostenendo che il sogno sia causato dal desiderio dell’inconscio di comunicare qualcosa al conscio, o dal desiderio del paziente di comunicare qualcosa al terapeuta; piuttosto per aiutare il sognatore a dare senso all’esperienza onirica le attribuiamo a posteriori la qualità della comunicazione intenzionale.
Il lavoro d’interpretazione proposto è un esercizio di consapevolezza; in apparenza finalizzato a portare ordine nel sogno, ritrovandone un significato condivisibile; in verità orientato a mettere sotto osservazione la rigidità con cui difendiamo l’ordine apparente della nostra vita, con l’obiettivo di aprirsi a una multidimensionalità emotiva.
 
Fabrizio Benedetti – L’effetto placebo: come parole e rituali cambiano il cervello del paziente
L’effetto placebo è un cambiamento organico o mentale che avviene in seguito al significato simbolico che viene attribuito ad un evento o oggetto in ambito sanitario. Al fine di misurare l’effetto placebo è necessario escludere la remissione spontanea del sintomo. Se non si fa ciò, si rischia di incorrere nell’errore di scambiare una remissione naturale per effetto placebo. Lo studio dell’effetto placebo riguarda fondamentalmente lo studio del contesto psicosociale intorno alla terapia e al paziente. Diverse linee di ricerca indicano che un placebo, e quindi diversi stimoli sociali, attivano diversi sistemi endogeni, come le endorfine, gli endocannabinoidi, la colecistokinina e la dopamina. Le patologie che hanno più contribuito a comprendere questi meccanismi sono il dolore e la malattia di Parkinson, e oggi conosciamo parte dei circuiti nervosi implicati nella risposta placebo in queste due condizioni. Queste recenti acquisizioni neurobiologiche indicano che differenti stimoli sociali, per esempio parole e rituali, producono cambiamenti nel cervello del paziente che possono modificare l’andamento di una malattia e la risposta ad una terapia.
 
Claudia Chiavarino – Psicocardiologia, il terzo incontro: l’evento critico
Mental Fitness è un training di benessere mentale mirato ad aumentare la consapevolezza dei propri stati somatici, emotivi e cognitivi. Originariamente indirizzato a persone con sindrome coronarica acuta, è tuttavia applicabile a tutte le patologie caratterizzate da rilevanti componenti somatiche, per una più efficace gestione della malattia e dei suoi esiti. Si compone di quattro incontri in piccolo gruppo, a cadenza settimanale, della durata di circa 90 minuti e prevede due forme parallele di intervento, una per le persone con locus of control per la salute interno e l’altro per le persone con locus of control per la salute esterno.
Il presente workshop si concentrerà sul terzo incontro del protocollo di Mental Fitness, che indaga i significati e le rappresentazioni relative alla malattia e al percorso di guarigione, a sé come possibile agente di cura e al contesto come possibile fonte di sostegno. Una parte dei partecipanti al workshop potrà sperimentare in prima persona l’intervento, e tutti saranno coinvolti nella discussione del vissuto emotivo e corporeo della loro esperienza. Infine, potranno essere discusse le basi teoriche e metodologiche del protocollo e le sue possibili applicazioni.
 
Giovanni Fassone & Gruppo di Lavoro “Motivazione Interpersonale, Relazione e Personalità” – L’AIMIT (Analisi degli Indicatori della Motivazione Interpersonale nei Trascritti) e le sue applicazioni in psicoterapia: dalla validazione dello strumento allo studio della relazione terapeutica, nella ricerca e nella didattica
Lo studio sistematico degli indicatori di attivazione di differenti sistemi motivazionali interpersonali in psicoterapia è iniziato con lo sviluppo di uno strumento, l’AIMIT (Liotti & Monticelli, 2008), che – sulla base di una di una procedura manualizzata – permette di rilevare nel corso del dialogo clinico riportato nei trascritti l’attivazione dei differenti sistemi motivazionali interpersonali e di codificarne la presenza attraverso un processo di siglatura. Per come è stato disegnato, l’AIMIT permette di rilevare lo stato motivazionale sia nel paziente che nel terapeuta, in riferimento sia a contenuti relativi alla relazione terapeutica che a contenuti riferiti ad episodi narrati. Lo scopo del presente lavoro è quello di presentare brevemente i primi dati recentemente pubblicati su alcune caratteristiche dello strumento (Fassone et al., 2011) e discutere possibili spunti di ricerca su ulteriori aspetti inerenti la sua validazione. Verranno inoltre presentati i dati di una ricerca su un campione di 40 pazienti con disturbi di personalità (valutati con la SWAP-200, Shedler et al., 2003), di cui sono state valutate con l’AIMIT le terze sedute, al fine di identificare profili di valutazione di possibile interesse per il clinico, il ricercatore e il didatta. Uno degli obiettivi è quello di saggiare l’ipotesi secondo la quale sia possibile individuare dei pattern di attivazione motivazionale interpersonale più o meno tipici rispetto ai diversi disturbi di personalità e alle loro caratteristiche cliniche e di funzionamento psicosociale. Scopo della presentazione è quello di fornire uno sguardo sulle potenzialità del metodo AIMIT, in particolare per lo studio delle dinamiche relazionali/motivazionali che si attivano nel paziente e nel terapeuta.
 
Davide Liccione – I sogni parlano quando hanno qualcosa da dire
Nessuna teoria clinico-aneddotica sul significato onirico è stata confermata dalla ricerca empirica,eappare sempre più probabile che i sogni non abbiano una funzione specifica, sia essa adattativa o psicologica (Domhoff, 2003). La ricerca neuroscientifica, nell’individuare le condizioni di possibilità affinché si possa sognare, ha ulteriormente confermato il principio di continuità, in base al quale il contenuto onirico è perlopiù coerente con i temi e i sentimenti della quotidianità (Nir & Tononi, 2010). Gli stati onirici e quelli vigili non sono, dunque, due ambiti oggettuali diversi. In quest’ottica il contenuto onirico può aprire un senso (offrire una direzione) da significarsi durante la veglia secondo personali coordinate storiche.
“Non una deduzione e spiegazione causale dei sogni, bensì mostrare i sogni stessi in ciò che essi dicono e nella loro attinenza al mondo, portarli innanzitutto a parlare; i sogni non in quanto sintomi e conseguenze di qualcosa di retrostante, bensì esso stessi nel loro mostrare e solo in questo. Solo con ciò inizia la problematicità della loro essenza”. (Heidegger, 1952).
Quindi, il sogno non come traccia di aspetti taciti di sé (approccio diagnostico), ma il sogno come specifico modo di sentirsi, quindi come possibilità di sé (approccio prognostico).
Nel corso dell’incontro saranno mostrate alcune procedure di analisi dell’attività onirica nel più ampio contesto della storia clinica di alcuni pazienti.
 
Giovanni Liotti – I sistemi motivazionali nel dialogo clinico: Applicazioni alla terapia degli esiti di traumi relazionali precoci
L’attaccamento disorganizzato, considerato un trauma relazionale precoce, è seguito nel corso dello sviluppo da strategie controllanti che coinvolgono sistemi motivazionali diversi dall’attaccamento. Traumi successivi determinano il collasso delle strategie controllanti e l’emergere di processi dissociativi che conducono lo sviluppo della personalità verso il quadro clinico del disturbo post-traumatico complesso (DPTSc). La conoscenza delle dinamiche motivazionali implicate, che può essere evidenziata durante il dialogo terapeutico dal metodo AIMIT, permette di monitorare in che misura lo scambio clinico riesca a indurre l’attivazione del sistema motivazionale cooperativo, cardine della correzione di tali dinamiche motivazionali nella cura dei disturbi che, come il DPTSc, implicano dissociazione. Si sosterrà, in questo contributo, che il metodo AIMIT può consentire ricerche sul processo terapeutico che dimostrino l’efficacia di finalizzare il dialogo clinico alla continua ricerca dell’attivazione del sistema cooperativo durante tutta la terapia del DPTSc.
 
Francesco Mancini – Terapia personale e formazione professionale: quale relazione?
In questo intervento ci piacerebbe offrire spunti di riflessione e di confronto sulla opportunità e utilità di inserire la terapia personale (TP) come componente necessaria nei programmi di formazione delle scuole di psicoterapia.
La  prima domanda a cui ci piacerebbe provare a rispondere in questo intervento è: esiste, ed è misurabile, una relazione tra TP e performance del terapeuta? Ovvero, quali abilità, competenze, qualità necessarie sono garantite solo o nel modo più efficace ed efficiente dalla TP? Sarà, quindi, prima presentata una rassegna degli studi sulla relazione tra terapia e performance. A questa rassegna si aggiungerà il contributo che viene da uno studio in corso nella nostre scuole, finalizzato ad indagare la relazione tra TP e alcuni indicatori di performance terapeutica (oltre a raccogliere dati qualitativi sulla richiesta di TP tra i nostri allievi nel corso dei quattro anni di formazione).
Il secondo quesito che ci porremo è: che tipo di problemi l’inserimento della TP nella formazione apre? La valutazione della efficacia della TP nel migliorare la formazione, infatti, ci sembra ancora più importante se si considera che non può essere inserita nei programmi in assenza di una risposta sulla sua efficacia, con la logica del  “tanto male non fa”, dal momento che ha dei costi e può aprire una serie di problemi di ordire pratico ed etico.
In ultimo, dal momento che la discussione sulla TP spesso si caratterizza come contrapposizione ideologica tra fautori della terapia obbligatoria e contrari, in quest’occasione ci piacerebbe provare a porre la questione in termini secondo noi più utili al confronto, ovvero chiederci per quale tipo di problemi di formazione la TP può essere una soluzione efficace ed efficiente. 
 
Giuliana Mazzoni – L’effetto nocebo: cause e conseguenze
L’effetto nocebo è probabilmente responsabile di una varietà di fenomeni che vanno dalle più estreme e spettacolari forme di uccisione a distanza, a forme più frequenti di malattia psicogena di massa, alla presenza di effetti collaterali nell’assunzione di farmaci. Questa presentazione si focalizza sugli aspetti psicologici (teorici e clinici) di questo fenomeno e del parallelo effetto placebo. Vengono inoltre riportati i risultati di alcuni esperimenti che mostrano come aspettative individuali e imitazione sociale siano tra i fattori che possono dar vita all’effetto nocebo. Infine vengono discusse le implicazioni di questi studi per la comprensione dei disturbi fisici e psicologici.
 
Saverio Ruberti – Lo sguardo metacognitivo sulla propria storia di vita
Tenendo conto dell’importanza che la rivisitazione della storia di sviluppo personale riveste per il processo terapeutico, nel workshop vengono esplorati i differenti modi e tempi con i quali la storia del paziente può essere letta e ricostruita. 
Vengono prese in esame le dinamiche con le quali le competenze metacognitive (promosse dal percorso di cura) possono consentire la costruzione di una storia e di una rappresentazione di sé coerenti, verosimili, armoniche e integrate, favorendo la crescita della sicurezza personale e relazionale.
Alla luce delle attuali conoscenze inerenti il rapporto fra sicurezza nell’attaccamento, capacità metacognitive e protezione dallo sviluppo di disturbi psicopatologici, il workshop si propone di individuare strategie d’intervento efficaci sul piano terapeutico, che tengano conto delle differenti caratteristiche cliniche dei pazienti.
L’approfondimento di queste tematiche viene proposto attraverso un lavoro orientato a riconoscere e analizzare gli stili narrativi con i quali i partecipanti danno senso a eventi e passaggi significativi della loro vita.
 
Fabio Veglia – La ricostruzione interpersonale di un evento come atto terapeutico
La ricostruzione della storia personale e delle trame di eventi significativi, come d’altra parte l’analisi di un singolo episodio critico sono spesso intesi come strumenti utili per conoscere il paziente nella fase di assessment e per individuare un piano di cura.
In realtà, l’atto terapeutico è sovente intrinseco alla rilettura condivisa di un evento, tanto più se ricostruito nel dispiegarsi ampio della coscienza interpersonale.   
L’emergenza di nuove prospettive, l’incremento dei gradi di libertà del sistema memoria coscienza, la solidarietà empatica, la percezione di un’alterità non minacciosa e cooperativa proprie della relazione d’aiuto, possono orientare, sostenere e disporre (anche se raramente generare direttamente) il cambiamento.
Dopo che ci siamo raccontati nella forma del dialogo, non possiamo più sentirci e pensarci come prima di averlo fatto. O, più propriamente, di averlo rischiato.
Possiamo consegnare il nostro racconto solo nelle mani di chi lo sa ricevere e custodire, perché l’evento narrativo trasforma inevitabilmente la storia ed il suo narratore.